“Difficile capire come possa essere esonerato un allenatore che raggiunge due finali europee consecutive“: ha tuonato così Josè Mourinho, ospite del Gran Premio del Portogallo disputato in quel di Portimao, in risposta ad una domanda sul suo addio turbolento dalla Roma. Un triste epilogo che evidentemente brucia ancora nella mente dello Special One, tradito dai suoi calciatori e simbolo forse di una sconfitta interiore per come è maturata, difficile da digerire, quasi psicologica, ferita incolmabile all’interno di una piazza che l’ha amato e continuerà a farlo. Anche se adesso nella capitale sono tutti innamorati di De Rossi, l’uomo che per gli anti-mourinhani ha risollevato la squadra ed è pronto in un colpo solo alla qualificazione in Champions e all’approdo in finale di Europa League. E così Mourinho, l’eroe del Triplete nerazzurro, è finito nel dimenticatoio: catenacciaro, non aggiornato con i tempi, scontroso, semplicemente fallimentare.
Nelle ultime settimane ne abbiamo lette di tutti i colori sul conto del portoghese, ma la verità è che la filosofia di gestione del gruppo e di comunicazione da parte di Mourinho supera i limiti del cosiddetto “politicamente corretto”. E quando oltrepassi certi orizzonti, il rischio di naufragare come Ulisse di fronte al monte del Purgatorio è altissimo, non è soltanto una questione politica. Chi conosce Josè sa benissimo che per lui i calciatori sono tutti diversi e hanno un modo diverso di comunicare, necessitano pertanto di un corretto feedback che l’allenatore deve saper loro trasmettere, indipendentemente da quello che possono pensare i giornali e le televisioni. Ecco che allora laddove Mou, per sua natura, motiva uno specifico giocatore o lo premia con una maglia da titolare, viene subito tacciato di avere simpatie all’interno dello spogliatoio. Un esempio? Rui Patricio, che vedendo le prestazioni di Svilar viene accusato di essere il portiere più scarso del campionato e pupillo del vecchio Mourinho. Nessuno nega i meriti di Svilar, e nemmeno quelli di De Rossi nell’averlo lanciato in porta, ma proviamo a ribaltare l’accusa: Svilar, a Budapest, meritava la titolarità oppure non era ancora pronto vista la giovane età?
Curioso che nessuno, se non l’allenatore, possa rispondere ad un quesito del genere. Così come il caso Pellegrini, Giuda per Mourinho e rinato “grazie” a De Rossi, ma non necessariamente “rovinato” dallo Special One. Sembra invece che il tecnico portoghese negli ultimi tempi si sia trasformato in un Re Mida al contrario, capace di trasformare l’oro in pietra e dunque di rovinare giocatori, spogliatoi, rapporti con i dirigenti. Le bordate rifilate a Thiago Pinto non sono di certo casuali, per Mourinho anche lui ha congiurato alle sue spalle e non si è reso conto assieme ai Friedrick che dietro quegli sfoghi in conferenza stampa si nascondeva un profondo amore per la Roma e i suoi tifosi. Perché questo è Mourinho, un uomo passionale che incarna i sogni della plebe e prova a trasformarli in realtà sfidando l’aristocrazia, come in quella famosa finale di Tirana, quando contro tutti i pronostici ha alzato un trofeo che per un semplice bambino della Capitale equivaleva ad un trionfo come persona, in una notte indimenticabile di profondo amore calcistico.
Atteggiamenti eretici al mondo d’oggi. Non vanno più bene e anche Mourinho sembra averlo capito. Ma la verità, piaccia o non piaccia, è che lo Special One si è dimostrato tale anche a Roma, alzando un trofeo e portandola per due volte a giocare una finale europea. Un “crimine” che gli è costato l’esonero.
Matteo Salvetti